Il Copyright: un relitto dell'era analogica in un era digitale
cristiangcel
- 3 minutes read - 574 wordsIn un’epoca come la nostra, in cui buona parte delle opere umane è accessibile digitalmente, il copyright diventa uno strumento limitante, poiché non si adatta alle esigenze odierne: la rapidità con cui le informazioni vengono condivise e diffuse, unita alla facilità di accesso e replicazione, mette in discussione i tradizionali concetti di proprietà intellettuale.
Il copyright, al giorno d’oggi, non è equo. Limita la condivisione di conoscenze e culture, creando un vero e proprio ostacolo per coloro che, per questioni economiche o politiche, non possono accedere a tali contenuti. Inizialmente nato per proteggere gli autori, esso, in realtà, cristallizza opere e idee, negando così a molti l’opportunità di fruirne e contribuire a un patrimonio culturale condiviso, soprattutto oggi, dove le copie digitali di un bene intellettuale non comportano un danno di tipo economico legato alla produzione fisica.
Riflettendo sul digitale, ha senso limitare la diffusione di un’opera? Mentre un libro stampato richiede risorse fisiche e un costo di produzione tangibile, il suo corrispettivo digitale ha costi di distribuzione pressoché nulli. Non comprendere il valore di una libera circolazione del sapere, almeno a mio parere, non è solo illogico, ma rappresenta un modo per negare l’informazione a coloro che non possono accedere tradizionalmente a causa dei costi associati o per motivazioni politiche, come la censura.
Inoltre, la storia è costellata di opere che, a causa della scarsità di copie fisiche, sono andate perdute. Questa situazione non solo è ingiusta, ma mina il bene comune e il futuro della nostra cultura; ecco perché progetti come l’Internet Archive, destinati a conservare e distribuire in digitale tutti i tipi di prodotti umani, sono più che giusti.
Ad esempio, quale danno potrebbe esserci nel rendere accessibile un film fuori commercio anni dopo la sua produzione, o comunque dopo aver guadagnato abbastanza per coprire i costi di produzione? L’autore, non potendo guadagnare da opere non in commercio, non subisce un danno economico; anzi, la riemersione delle sue opere, una volta riscoperte, potrebbe portarle a nuova vita anche anni dopo la loro pubblicazione.
Fortunatamente, esistono alternative al copyright tradizionale (come le licenze Creative Commons) che permettono la redistribuzione e tutelano comunque l’autore, riconoscendone la paternità. Gli stati dovrebbero smettere di favorire gli interessi delle grandi lobby e cominciare a servire quelli della gente comune. Il vero compito di uno stato dovrebbe essere quello di rappresentare e proteggere la comunità, non le ambizioni di chi cerca solo profitto.
Copyright o meno, la rete ha sempre un modo per aggirare tali norme e distribuire (in modo non legale) tali contenuti, anche senza il consenso dell’autore. Se ciò avviene così liberamente ed è qualcosa di irrefrenabile, che senso ha adottare misure del genere se il contenuto è destinato a essere distribuito liberamente? Credo sia importante considerare questo aspetto una volta realizzata un’opera, poiché, nonostante le norme, la rete ha una natura che la destina a una condivisione quasi “anarchica” di contenuti e che non si adatta a quello che è il copyright tradizionale: se qualcuno vuole scaricare (o distribuire) in modo illecito un’opera, lo farà tranquillamente eludendo le norme di legge.
Detto ciò, credo sia importante utilizzare licenze più permissive, ma che allo stesso tempo garantiscano la paternità delle opere, in quanto la realtà odierna richiede un equilibrio tra la protezione dei diritti degli autori e la necessità di un libero e universale accesso alla cultura e alla conoscenza.